Alessandro Manzoni, Ayda Yespica, Kevin Love. Uno scrittore, una showgirl e un giocatore del NBA.
Cosa accumuna questi tre personaggi così diversi tra loro? Tutti e tre soffrono -o soffrivano- di attacchi di panico.
Alessandro Manzoni nel 1810 fu costretto a lasciare Place de la Concorde durante i festeggiamenti per le nozze di Napoleone Bonaparte a causa di un attacco e non riusciva ad uscire di casa da solo a causa del panico che gli scatenavano gli spazi aperti o affollati.
Ayda Yespica fu costretta a rinunciare all’ultimo momento a un’ospitata in tv a causa di un attacco che la costrinse a chiudersi in casa.
Kevin Love ebbe il suo primo attacco di panico durante l’intervallo di una partita contro gli Atlanta Hawks, arrivò dal nulla e da quel giorno il suo modo di pensare sul tema della salute mentale cambiò totalmente. Ha descritto il suo attacco “come se il cervello stesse cercando di arrampicarsi fuori dal mio cranio e il mio corpo mi stesse dicendo di stare per morire”. Un suo collega, Royce White, un fortissimo giocatore del campionato universitario NCCA, proprio a causa degli attacchi di panico non riuscì mai a sfondare nel NBA.
Come loro moltissime persone, circa 10 milioni solo in Italia secondo delle stime del 2013, hanno sofferto almeno una volta di un attacco di panico, un problema che affligge circa il 3% della popolazione mondiale.
Ma come si manifesta un attacco di panico? I sintomi più comuni sono: rossore al viso, capogiri, sensazione di stordimento, debolezza, sensazione di svenimento, formicolii o intorpidimenti nelle aree delle mani, dei piedi e del viso, difficoltà a respirare, sudorazione o brividi, nausea, tachicardia o palpitazioni, paura di impazzire e paura di morire. In genere questi attacchi durano dai 10 ai 20 minuti e questa caratteristica può permettere di distinguere un attacco di panico da altre patologie fisiche, molto spesso, infatti le persone che sperimentano questa varietà di sensazioni non riescono subito a inquadrarle in un disturbo di panico, ma pensano di aver problemi gastrointestinali o disturbi cardiaci. Un’altra caratteristica tipica è il desiderio di fuggire dal luogo in cui si sta manifestando l’attacco di panico e di mettere in atto strategie di evitamento di luoghi o situazioni che, secondo la persona che ne soffre, possono potenzialmente scatenare l’attacco, con il risultato che spesso chi ha gli attacchi di panico arriva a non uscire più di casa e a rinunciare a tutte le occasioni di incontro sociale.
Quando siamo esposti a minacce o stimoli percepiti come pericolosi, si attiva l’amigdala e viene innescata la modalità di attacco-fuga-freezing. Queste risposte sono come quelle degli animali o dell’uomo delle caverne davanti alla tigre dai denti a sciabola: attacco l’animale pericoloso sperando di vincerlo, fuggo per mettermi in salvo o mi congelo, freeze appunto, fingendomi morto e sperando che l’animale mi lasci stare. Durante queste risposte si attivano le risposte più interne all’organismo: l’adrenalina aumenta, il cuore batte più velocemente, le reazioni vagali stimolano l’intestino a liberarsi per essere più leggeri e fuggire più agilmente, la sudorazione aumenta per rendere il corpo scivoloso al predatore. Superato l’evento il corpo torna ad operare al suo livello ottimale, la persona è salva e quindi l’attivazione di questi processi può cessare.
Come si può notare, le risposte appena descritte sono del tutto sovrapponibili alle sensazioni somatiche provate durante un attacco di panico.
Nel mondo moderno dove non c’è una tigre dai denti a sciabola ben riconoscibile, la sensazione di allarme può essere sollecitata anche da stimoli non immediatamente identificabili come pericolosi, ma tutti, almeno una volta nella vita, hanno avuto mal di pancia e i palmi sudati prima di una verifica o prima di dover parlare in pubblico. Ecco, quella è la paura. In genere quel tipo di paura è del tutto affrontabile, questo, però, non accade durante l’attacco di panico che è il risultato di “interpretazioni catastrofiche” di eventi fisici e mentali che vengono erroneamente valutati come segni di un imminente pericolo. La persona non riesce a capire cosa le sta succedendo o cosa abbia scatenato quelle sensazioni, è confusa, disorientata e teme di morire.
Quello che succede è che la persona è pronta a combattere un pericolo che in realtà non c’è, tutto il suo corpo è pronto, ma non c’è nulla da combattere.
Secondo il Modello del Circolo vizioso del Panico (Clark, 1986 – Modificato da Wells, 1997) uno stimolo scatenante esterno o interno viene percepito come minaccioso e attiva le sensazioni appena descritte, queste attivano un’interpretazione catastrofica, la persona teme che le stia venendo un infarto o che stia per morire e questo incremento della preoccupazione causa il vero e proprio attacco di panico. Per scongiurare altri attacchi di panico chi ne soffre inizia a evitare le situazioni che potrebbero scatenarli, con il risultato di cronicizzare l’ansia.
Cosa si può fare per trattare gli attacchi di panico? La psicoterapia cognitivo-comportamentale è la più indicata per trattare questo tipo di problema, insieme alle tecniche di rilassamento. Un aiuto concreto può essere guardare l’orologio durante l’attacco di panico, continuando a ripetersi che nell’arco di venti minuti arriverà al suo apice per poi passare.
La cosa più importante è evitare la stigmatizzazione, spesso chi soffre di questi attacchi teme di mostrarsi debole e per vergogna non cerca l’aiuto di cui avrebbe bisogno. Lo stesso Kevin Love ha dichiarato che un tempo non avrebbe mai considerato l’idea di andare da un terapeuta perché considerata –da lui e dalle persone vicine- “poco da uomini”. Ora fa delle sedute un paio di volte al mese e sta molto meglio e ha deciso di condividere la sua esperienza nella speranza di accendere i riflettori sul tema della salute mentale.